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Diffamazione a mezzo internet e a mezzo Facebook: cosa c’è da sapere?

Al giorno d’oggi tutti hanno la possibilità di esprimere il proprio pensiero sul web su qualsiasi argomento, in primis grazie ai social network come Facebook.
Ciò comprende anche giudicare persone e brand, spesso in ottica negativa, portando a veri e propri fenomeni di diffamazione che danneggiano la reputazione altrui.

Il diritto alla libera manifestazione del pensiero (garantito dall’articolo 21 della Costituzione) infatti può cozzare contro il diritto alla difesa della propria reputazione, in virtù del bilanciamento degli interessi dei soggetti coinvolti
La reputazione sul web può essere ricondotta a un bene giuridico quale “la stima diffusa nell’ambiente sociale” (Trib. Perugia, 28 febbraio 1992), ovvero l’opinione che le persone hanno della stima e del decoro di un soggetto.

La diffamazione è un delitto doloso, che per essere qualificato come tale non richiede di dimostrare l’intenzione di nuocere alla volontà altrui.
L’art. 595 del Codice Penale la configura in presenza di dolo generico, ovvero nella semplice volontà di diffondere spontaneamente notizie e commenti che conducono alla realizzazione di fatti diffamatori.

La legislazione si occupa quindi di individuare i delitti contro l’onore perpetrati a mezzo internet e di attribuire le pene commisurate.
L’identità digitale viene percepita importante quanto quella nella vita fisica, siccome rispecchia le qualità e le esperienze del soggetto e costituisce un metro di giudizio da parte degli altri soggetti dell’identità della persona in questione.

Cos’è la diffamazione a mezzo internet?

La diffamazione a mezzo internet costituisce un delitto contro l’onore: esso avviene quando un soggetto lede la dignità altrui attraverso mezzi informatici e telematici (social media, sito web, blog ecc.).

La normativa non cita espressamente i nuovi strumenti di comunicazione online, ma fa riferimento alla preesistente normativa in fatto di commissione di reati contro l’onore (artt. 594 e 595 c.p.).
Tuttavia, vengono annoverati nella categoria di “stampa”, ex art. 595, co. 3, c.p., tutti i prodotti che conducono a una diffusione analoga; allo stesso modo vengono inclusi negli “altri mezzi di pubblicità” tutti gli strumenti divulgativi, quindi anche internet.

La diffamazione è un reato “istantaneo” che avviene nel momento stesso della comunicazione del contenuto lesivo della reputazione.
La Suprema Corte ha stabilito che, quando un sito viene visitato da un gran numero di soggetti, il messaggio diffamatorio può essere portato a conoscenza di un gran numero di soggetti in brevissimo tempo.
Rispetto ai mezzi cartacei tradizionali, infatti, le notizie possono viaggiare senza nessun controllo preventivo, perciò i delitti contro l’onore delle persone possono avvenire con enorme facilità.

La diffamazione non si può configurare in maniera statica, ma ciò che ricade in tale definizione si evolve assieme ai costumi sociali, perciò che può essere reputato diffamazione in un periodo può non esserlo più in un altro periodo.
Questo ambito si evolve passo a passo con le innovazioni tecnologiche del settore, pertanto sorgono continuamente nuovi strumenti informatici che pongono il legislatore di fronte all’esigenza di giudicare il caso in questione rispetto alla disposizione normativa del momento.

Diffamazione a mezzo Facebook: quando si qualifica il reato

Anche Facebook, a causa della grande facilità con la quale chiunque può diffondere esternazioni, diventa uno strumento che viene utilizzato per ledere la dignità altrui.
La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso Facebook configura un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595.

La diffamazione su Facebook si riconosce da vari elementi:

  • l’assenza del soggetto destinatario, che le rende impossibile ricevere direttamente il contenuto e difendersi da esso
  • l’offesa alla reputazione o la possibilità che si verifichi una lesione dell’onore
  • la presenza di due o più persone che siano in grado di recepire l’offesa e di comprenderne il significato
  • La Corte stabilisce inoltre che l’eventualità di diffamazione non contempla necessariamente l’indicazione espressa del nome del soggetto, ma basta che sia chiaro il destinatario del messaggio diffamatorio (ad esempio, con allusioni al ruolo e alla provenienza geografica, che rendono facile al pubblico individuare l’identità del soggetto in questione).

I presupposti che qualificano come tale la diffamazione a mezzo Facebook sono:

  • la comunicazione rivolta a più persone data l’accessibilità dello spazio virtuale e la possibile incontrollabile diffusione.
    la precisa individuabilità del destinatario delle offese
    l’intenzione di avvalersi di espressioni tali da danneggiare il decoro, l’onore e la reputazione del soggetto passivo.
  • Si da per assodato che l’utilizzo di internet integri l’ipotesi aggravata di cui all’art. 595, co. 3, c.p. (offesa recata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità), a causa della grande diffusione che il mezzo assicura ai contenuti ingiuriosi.

E cosa succede quando qualcuno posta dei contenuti ingiuriosi all’interno di una community di Facebook?
Quando vengono pubblicati messaggi diffamatori in una community social o su un sito Internet il gestore dello stesso è responsabile a livello concorsuale qualora questi, pur essendo informato del contenuto diffamatorio del messaggio, ne permette la permanenza senza provvedere a rimuoverlo (sentenza della Corte di Cassazione, V sez. penale, 14 luglio – 27 dicembre 2016, n. 54946).
Diffamazione a mezzo internet – Quali pene sono previste?
Secondo l’art. 595 del Codice Penale “chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1032 Euro”.

Come recita il codice: “se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino ad € 2.065,00. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altra forma di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore ad € 516,00”

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